Firenze,
autunno 1974. Marco Carrera ha 15 anni ed è basso, 156 cm appena
contro la media di 170 dei maschi a quell’età (e in quell’epoca).
E’ per questa caratteristica che Letizia, sua madre, gli appiopperà
il nomignolo di “colibrì”, perché lei non se ne preoccupa.
Probo, suo padre, invece sì, a tal punto che per la prima volta
arriverà a imporre il suo volere su quello della moglie dando il
consenso per far somministrare al figlio una cura sperimentale…
La
cosa brutta dei libri belli è finirli. Filippo, un altro caro amico
di gioventù, mi aveva consigliato di leggere “Il colibrì” mesi
fa e mi sono decisa a farlo adesso perché se la prossima settimana
dovesse vincere il Premio Strega poi lo leggerebbero tutti e a me
passerebbe la voglia.
Ho
fatto benissimo: meritava di essere letto come merita di vincere il
premio. La seconda affermazione è azzardata: dei sei titoli in
finale, oltre a questo, ho letto soltanto “La
misura del tempo” di Gianrico Carofiglio, altro libro che ho
amato tanto, ma fra i due se fossi io a dover scegliere premierei
senza dubbio Veronesi.
In
parte perché non condivido la scelta di candidare un libro che non
solo fa parte di una serie, ma che è anche il sesto e (per ora)
ultimo capitolo di essa e quindi, pur raccontando una storia
autoconclusiva, andrebbe letto in coda agli altri.
Ma
farei vincere Veronesi perché “Il colibrì” è davvero stupendo.
Torno
all’azzardo (perchè non li ho letti certo tutti) dicendomi
d’accordo con “La Lettura” che lo aveva definito il miglior
libro del 2019, mentre posso dare tranquillamente ragione a Marco
Missiroli (“Di questo libro si dirà che è un capolavoro”)
e a Vincenzo Mollica (“Uno dei romanzi più belli degli ultimi
dieci anni”).
Il
libro racconta la vita di Marco Carrera, fiorentino classe 1959,
un’esistenza che avrebbe potuto essere barbosamente borghese se non
fosse stata costellata da eventi particolari e per lo più tragici.
Veronesi
scrive così bene da non risultare mai pesante nonostante l’alto
tasso di drammaticità. Riesce anche a far divertire, cosa non
facile, ma soprattutto commuove fino a far soffrire chi ha vissuto
quelle tragiche esperienze che sa descrivere in modo tristemente
perfetto.
Ed
è immensamente bravo a narrare l’intera vita del suo protagonista
con continui salti temporali che danno una grande vivacità alla
storia senza mai far perdere il filo.
Lo
stile mi ha ricordato spesso quello di Carofiglio, nelle citazioni
(toccanti le due di altrettanti brani di De Andrè) e
soprattutto nei dialoghi e nei brevi capitoli epistolari. Carofiglio
però è più bravo di Veronesi nel trattare la denuncia sociale: il
primo dà a certi temi un ruolo da protagonista integrandoli nei suoi
personaggi e negli eventi, mentre Veronesi ha concentrato tutto
quello che voleva dire in un unico capitolo che, così isolato nel
contesto, mi è sembrato un po’ una forzatura, ma che resta
comunque un meraviglioso discorso di accusa contro la prassi sempre
più comune di pensare che in nome della propria libertà si abbia
diritto di fare tutto, anche ciò che è illecito, che danneggia
altri o che disprezza le altrui (lecite) scelte.
Una
presunzione di libertà che ha solo un nome e non è egoismo, bensì
ignoranza. Proprio nell’era in cui non si hanno più scusanti per
esserlo.
"I
lupi non uccidono i cervi sfortunati. Uccidono quelli deboli”
Reading
Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di giugno
"un libro con meno di 400 pagine"