mercoledì 26 gennaio 2022

"Il senso di una fine", Julian Barnes



Londra, anni attorno al 2010. Tony Webster ha poco più di sessant'anni, è un padre, un nonno, un ex marito, un pensionato. Conduce un'esistenza tranquilla, senza tante sorprese, rassicurante per tanti, banale per molti.
Un giorno riceve un'eredità inaspettata: un lascito di 500£ e un diario. Ma il diario è in mano a qualcuno che rifiuta di restituirlo e questo apre una finestra nel passato di Tony, i ricordi di quando era poco più di un adolescente e a scuola era arrivato un nuovo ragazzo, Adrian Finn, così intelligente, così brillante, così diverso da lui.

Scritto nel 2011, titolo italiano tradotto fedelmente dall'originale (meno male, è perfetto), quarto romanzo che leggo dell'autore. Ed è quello che d'ora in poi porterò come esempio quando mi capiterà di spiegare cosa apprezzo dei libri brevi (di quelli scritti bene): la capacità di raccontare quello che si vuole raccontare in maniera chiara, approfondita, completa, riuscendo ad appagare il lettore senza bisogno di arrivare a 300-400 pagine o più, che tante volte vengono riempite di niente (e questo è il motivo per cui spesso non apprezzo i tomi, anche se ovviamente le eccezioni ci sono sempre, in entrambi i casi).

Barnes in 160 pagine, divise in appena due capitoli, delinea perfettamente i suoi personaggi, ci fa conoscere il passato e il presente. Per i quarant'anni che ci sono in mezzo gli basta un tratteggio, in pochi cenni dà al lettore tutto quello che gli serve per capire in profondità chi è Tony e tutto quello che gli è ruotato attorno e che gli è successo: bisogna essere bravi per riuscirci.

Più di una volta mi sono trovata a pensare che un protagonista come Tony avrebbe potuto nascere anche dalla fantasia di Carofiglio, ma - considerando la diversità di spessore che hanno Guerrieri e Fenoglio - deve essere stato qualcosa nel modo di scrivere a ricordarmi il suo stile.

"Ricordo una sbronza triste a una festa il primo semestre di studi, e ricordo di essermi sentito rispondere a una ragazza pietosa che mi chiedeva se stavo bene: «Credo di essere un maniaco depressivo», perché al tempo l’espressione mi pareva piú prestigiosa di un semplice «Sono un po’ giú». E solo quando ribatté: «Oh, no, un altro!», affrettandosi a sparire, mi resi conto che, lungi dall'essermi distinto dalla folla festante, avevo appena sperimentato la peggior battuta di abbordaggio possibile"

Un romanzo maschile, nella penna e nella chiave di lettura, ed è forse per questo che non sono d'accordo con la considerazione finale (credo anche che possa risultare offensivo per chi si trova a vivere nella realtà la situazione descritta perchè la compassione, anche quella dettata dall'affetto o da qualcosa di analogo, non è piacevole da ricevere) mentre con un po' di tristezza mi sono ritrovata nei pensieri di Tony, che ha solo una decina d'anni più di me, riguardo all'età e al trascorrere del tempo.

"Quando si è giovani, chiunque superi i trent’anni ci sembra di mezza età, chiunque superi i cinquanta, decrepito. E il passare del tempo ci conferma che non sbagliavamo di molto."

Se non volessi essere cremata inizierei anch'io a pensare alla frase che vorrei scritta sulla mia tomba...

Reading Challenge 2022, traccia di gennaio: un libro di un autore che hai già letto