lunedì 3 aprile 2023

"Quando l'imperatore era un dio", Julie Otsuka

 


Questo è uno dei manifesti che verso la fine dell'aprile del 1942 vennero affissi nei luoghi pubblici degli Stati Uniti. A Berkeley la donna di cui il libro racconta dopo averlo letto inizia a seguirne le istruzioni. Ha 41 anni ed è sposata da quindici. Il marito è stato arrestato l'indomani dell'attacco di Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, come nemico e traditore, accuse che è irrilevante dimostrare perché una colpa la ha ed è sufficiente: è giapponese. Come lo è sua moglie e come vengono considerati i loro due figli, una bambina di 10 anni e un bambino di 7, nonostante siano nati in America e non sappiano neppure una parola di giapponese.
La donna ora deve preparare loro e sé stessa all'evacuazione e alla deportazione. Non sa dove li porteranno, ma sa che deve liberare la casa e preparare un bagaglio leggero. La conosciamo mentre seppellisce l'argenteria e l'anziano cane, che ha preferito uccidere privandolo della possibilità di riuscire a cavarsela da solo. Al pappagallo ha aperto la gabbia, invece il gatto lo ha lasciato ai vicini.
A settembre, dopo aver trascorso quattro mesi nel centro di raccolta dell'ippodromo Tanforan, a sud di San Francisco, per i tre inizia un lungo viaggio in treno verso il confine nord occidentale del Nevada, per poi proseguire in pullman fino alla destinazione finale, Topaz, nello Utah, dove rimarranno ad aspettare la fine della guerra.

"A Topaz si fermò. La bambina guardò fuori dal finestrino e vide centinaia di baracche rivestite di carta catramata sotto il sole cocente. Vide pali del telefono e recinzioni di filo spinato. Vide soldati. E tutto ciò che vide, lo vide attraverso una nuvola di sottile polvere bianca che un tempo formava il letto di un lago salato."
Scritto nel 2002, questo è il primo dei (soli) tre romanzi brevi scritti da Julie Otsuka, nata in California nel 1962, ma di origini giapponesi.
Il mese scorso avevo letto "Venivamo tutte per mare", scritto nove anni dopo, ma che - raccontando delle donne giapponesi trasferitesi negli Stati Uniti nei primi decenni del secolo scorso in seguito a matrimoni per procura - narra fatti precedenti a questa storia che inizia con Pearl Harbor e termina nei mesi immediatamente successivi alla fine della Seconda Guerra mondiale.

Ancora più breve dell'altro (133 pagine vs 144), dice comunque molto. Della famiglia giapponese non ci vengono detti i nomi, ma in cinque capitoli - i primi tre narrati in terza persona, gli ultimi due in prima, dal bambino e dal padre - ci viene raccontato tutto il disagio. l'umiliazione, la paura e le incertezze di queste persone diventate nell'arco di una notte il nemico, anche chi aveva sette anni, erano nato in America e non sapeva nulla del Giappone.

"Ci guardavamo allo specchio e non eravamo contenti di quello che vedevamo: capelli neri, pelle gialla, occhi a mandorla. Il volto crudele del nemico."
Per quanto gli americani si ostinassero a chiamarli residenti, il Topaz War Relocation Center era un campo di concentramento. Certo al confronto dei campi di sterminio nazisti si può dire che queste persone siano state fortunate, per non parlare degli abitanti di Hiroshima e Nagasaki. E non va dimenticato che all'esercito giapponese si imputa l'uccisione di un numero impressionante di persone che secondo alcune stime arriva a dieci milioni.

Queste sono le guerre, nessuno è buono, ma non ci siamo ancora stancati di farle. Quando dei civili vengono identificati con un numero e privati della libertà poco importa se il centro viene chiamato di concentramento o di internamento: il comportamento degli americani nei confronti dei civili giapponesi (o di origine giapponese) residenti negli Stati Uniti è stato inumano e inutilmente crudele e questo libro lo descrive benissimo.

Reading Challenge 2023, traccia annuale di gennaio: libri a scelta, la somma delle pagine deve dare 2023 (questo ne ha 133)