Regione
dell’Araucanìa, confine fra Cile e Argentina. Il branco di uomini
ha provato a dargli un nome, ma lui un nome lo ha già: è Aufman,
che in mapudungun significa leale e fedele. A darglielo è stato
l’anziano Wenchulaf quando il giaguaro lo ha portato al villaggio,
dopo averlo raccolto in mezzo alla neve sulla cordigliera. E in mezzo
agli indios è cresciuto felice insieme a Aukaman, il cucciolo di
uomo a cui il vecchio saggio lo ha donato. Ma un giorno è arrivato
il branco, ha bruciato il villaggio e ha riconosciuto in lui un
prezioso esemplare di pastore tedesco. Lo hanno preso e la sua vita è
cambiata: non ci sono più stati il profumo del legno, il calore
della lana e il sapore del latte, ma solo una corta catena a
serrargli la gola e qualche tozzo di pane secco perché “un cane
caccia meglio quando è affamato”. Non c’è più più stato
affetto, ma solo calci, botte, ordini.
E adesso gli hanno ordinato di
stanare un fuggitivo lungo il fiume…
Quarto
racconto di Sepùlveda che leggo, un autore di cui vorrei recuperare
tutto, ma a piccole dosi perché le meravigliose storie che racconta
fanno male al cuore. Questa volta la sua enorme sensibilità arriva
anche all’uomo, parlando dei Mapuche, il Popolo della Terra, una
minoranza perseguitata da mille anni, prima dagli Incas, poi dai conquistadores
spagnoli e quindi da Pinochet, che emanò una speciale legge antiterrorismo,
una legge ancora in vigore che fa dei Mapuche un popolo vittima di
discriminazioni.
Sepùlveda
non entra in questi dettagli, non chiarisce nemmeno la datazione
della storia, ma non è importante. Ci racconta dei Mapuche
attraverso gli occhi di Aufman, a cui è impossibile non affezionarsi
e non provare un gran bisogno di proteggerlo. Non solo lui. Come
sempre questo splendido autore comunica tutto il suo amore e
il suo grandissimo rispetto per la natura e per gli animali.
"Chi
non coglie la tristezza negli occhi del cavallo, che dopo essere
stato domato sente ancora sotto gli zoccoli la libertà perduta? Chi
non percepisce la pena nello sguardo del bue legato al giogo e
allontanato dalla prateria? Chi non avverte la propria piccolezza
contemplando le pupille del condor, sovrano del cielo più alto”
In tanti, in troppi. Ma ho la fortuna di non far parte di quei tanti e quindi di condividere (e, nel mio piccolo, di mettere in pratica) lo stesso amore e lo stesso rispetto: è così che si vive (e si lascia vivere!) meglio.