lunedì 23 marzo 2020

"Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà", Luis Sepùlveda


Regione dell’Araucanìa, confine fra Cile e Argentina. Il branco di uomini ha provato a dargli un nome, ma lui un nome lo ha già: è Aufman, che in mapudungun significa leale e fedele. A darglielo è stato l’anziano Wenchulaf quando il giaguaro lo ha portato al villaggio, dopo averlo raccolto in mezzo alla neve sulla cordigliera. E in mezzo agli indios è cresciuto felice insieme a Aukaman, il cucciolo di uomo a cui il vecchio saggio lo ha donato. Ma un giorno è arrivato il branco, ha bruciato il villaggio e ha riconosciuto in lui un prezioso esemplare di pastore tedesco. Lo hanno preso e la sua vita è cambiata: non ci sono più stati il profumo del legno, il calore della lana e il sapore del latte, ma solo una corta catena a serrargli la gola e qualche tozzo di pane secco perché “un cane caccia meglio quando è affamato”. Non c’è più più stato affetto, ma solo calci, botte, ordini.
E adesso gli hanno ordinato di stanare un fuggitivo lungo il fiume…

Quarto racconto di Sepùlveda che leggo, un autore di cui vorrei recuperare tutto, ma a piccole dosi perché le meravigliose storie che racconta fanno male al cuore. Questa volta la sua enorme sensibilità arriva anche all’uomo, parlando dei Mapuche, il Popolo della Terra, una minoranza perseguitata da mille anni, prima dagli Incas, poi dai conquistadores spagnoli e quindi da Pinochet, che emanò una speciale legge antiterrorismo, una legge ancora in vigore che fa dei Mapuche un popolo vittima di discriminazioni.

Sepùlveda non entra in questi dettagli, non chiarisce nemmeno la datazione della storia, ma non è importante. Ci racconta dei Mapuche attraverso gli occhi di Aufman, a cui è impossibile non affezionarsi e non provare un gran bisogno di proteggerlo. Non solo lui. Come sempre questo splendido autore comunica tutto il suo amore e il suo grandissimo rispetto per la natura e per gli animali.

"Chi non coglie la tristezza negli occhi del cavallo, che dopo essere stato domato sente ancora sotto gli zoccoli la libertà perduta? Chi non percepisce la pena nello sguardo del bue legato al giogo e allontanato dalla prateria? Chi non avverte la propria piccolezza contemplando le pupille del condor, sovrano del cielo più alto

In tanti, in troppi. Ma ho la fortuna di non far parte di quei tanti e quindi di condividere (e, nel mio piccolo, di mettere in pratica) lo stesso amore e lo stesso rispetto: è così che si vive (e si lascia vivere!) meglio.
 
Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di marzo "un libro con un articolo nel titolo"