lunedì 13 giugno 2022

"Una brava bambina", Seo Mi-ae


Seul (Corea del Sud), giugno di un anno vicino al 2010. Yi Seonkyeong, criminologa, ha appena terminato il suo primo corso come docente quando viene convocata nel carcere di massima sicurezza: Yi Byengdo - serial killer in attesa di essere giustiziato per avere ucciso tredici donne - ha chiesto di incontrarla. Possibile che abbia scelto proprio lei per confessare dove ha nascosto i corpi delle sue vittime?
Contemporaneamente una sera torna a casa e trova seduta sul suo divano una bambina che non conosce: è Hayeong, la figlia undicenne che suo marito ha avuto dalla prima moglie.
Solo adesso Jaeseong le dice che la madre della bambina era morta subito dopo il loro matrimonio, quasi un anno prima, e che Hayeong era rimasta a vivere con i nonni materni, morti anch'essi durante la notte in un incendio da cui si è salvata solo la bambina.
E adesso tocca a Seonkyeong decidere se accettare che la piccola vada a vivere con il padre, e quindi con lei.

Secondo dei sei romanzi scritti da Mi-ae, autrice sudcoreana classe 1965, fra il 2009 e il 2021. Questo, del 2010, è il primo a essere stato tradotto in italiano e non ci sarebbe da strapparsi i capelli se fosse anche l'ultimo.

Google mi traduce il titolo originale, "Jal jayo eomma", con "Buonanotte mamma", migliore di quello della versione italiana, anche se chiaramente Hayeong non è affatto una brava bambina.

All'inizio mi hanno preoccupata non poco 
 i nomi coreani di persone e luoghi (ma a me basta la presenza di un John e di un Jack nello stesso libro per farmi maledire l'autore per non aver scelto due nomi meno simili), ansia sfumata dopo i primi capitoli quando mi è risultato chiaro che i personaggi erano pochissimi e che, tolto il primo riferimento a un quartiere di Seul, non ve ne erano altri di geografici. Anche il fatto che la protagonista abbia lo stesso cognome del serial killer (Yi, il cognome coreano più diffuso, a livelli non paragonabili con il nostro Rossi) si è dimostrato presto irrilevante perché la Mi-ae per lei usa solo il nome proprio e per lui o il nome proprio o il nome completo, per cui non si rischia mai di fare confusione.

Più problematico è stato lo scontro culturale. Nei romanzi di autori orientali che ho letto (non tanti da potermi considerare un'esperta, ma abbastanza da farmi un'idea generale) ho quasi sempre avvertito un forte impatto per via delle differenze con il modo di ragionare e di interagire occidentali, non per forza migliori, ma meno condizionati da maschilismo e formalismo.
In questo caso mi ha sconcertata soprattutto il secondo aspetto, come questo padre
in due anni (uno di frequentazione e uno di matrimonio) non abbia fatto conoscere alla seconda moglie la figlia di primo letto (e non meno paradossale è la mancanza di interesse della donna), che non le abbia detto che la madre della bambina era morta, che non sappia come dirle che adesso la bambina dovrà vivere con lui, quindi con loro e anche che non fosse già successo dopo la morte della madre, vista la mancanza di impedimenti economici, logistici o di altro genere. Altro esempio: la bambina andando a vivere con loro cambia scuola ed è Seonkyeong ad accompagnarla decidendo di non raccontare alla maestra della situazione della bambina perché "non voleva che avesse dei preconcetti".
Certo io non sono una profiler esperta di psicologia come 
la protagonista, ma mi sembrano comportamenti privi di logica e per come vengono presentati, senza nessun tipo di elucubrazione, credo che l'autrice abbia semplicemente descritto situazioni abituali nella cultura orientale.

Ma i problemi del thriller, in quanto tale, sono ben altri. Composto da 33 capitoli divisi in quattro parti, non è scritto bene: è ripetitivo - sia nei concetti espressi (e questo è abbastanza tipico nella letteratura orientale), sia nei termini usati (e qui non è dato sapere se dipenda dall'autrice o dal traduttore), ed è povero, come stile, come idee, come contenuti, come tempistica.

Ad esempio nella sinossi viene dato risalto al fatto che 
Seonkyeong sia stata soprannominata Clarice dai suoi studenti del corso di criminologia: l'abbinamento profiler e serial killer crea un'aspettativa molto chiara e, soprattutto, alta, invece l'addestramento nell'FBI della coreana si riduce in un misero corso di dieci giorni e - se l'inesperienza non aveva impedito a Thomas Harris di creare un grande personaggio con la sua Clarice - di certo la Mi-ae non è stata in grado di fare altrettanto.

Tutta la parte (consistente) legata a 
Byengdo l'ho avvertita come di troppo. Lui viene raccontato in un modo che porta alla commozione, cosa che non crea dilemmi etici perché le tredici donne che ha ucciso restano solo un numero: la questione degli omicidi non viene minimamente approfondita. Avrei apprezzato di più il libro se la storia avesse riguardato solo la bambina perché è l'unica che riesce a creare un minimo di suspense da thriller (ma io ho dato un grosso aiuto all'autrice associandola un po' troppo e senza motivo, se non la descrizione dei lunghi capelli neri, a quella di "The ring"), ma basta averne letto un tot per capire da un particolare fornito nel primo capitolo quale sarà lo sviluppo del libro!

Se non lo si è già fatto, meglio dedicarsi ai romanzi di Harris, quelli sì che sono belli.

Reading Challenge 2022, traccia di giugno: un libro edito da Giunti