lunedì 27 giugno 2022

"L'avversario", Emmanuel Carrère

 

Ferney-Voltaire (regione Auvergne Rhone-Alpes, Francia), domenica 10 gennaio 1993. I netturbini si accorgono che una casa è in fiamme alle quattro del mattino. Quando i vigili del fuoco riescono a entrare trovano solo una persona ancora in vita, Jean-Claude Romand. Per sua moglie, Florence Crolet, e per i loro due bambini, Antoine e Caroline, rispettivamente di 5 e 7 anni, non c'è più niente da fare. Ma non sono morti a causa dell'incendio: la donna è stata uccisa con violenti colpi alla testa, mentre ai bambini hanno sparato.
Quando Jean-Claude esce dal coma dopo una settimana afferma che il colpevole è un estraneo introdottosi in casa durante la notte. Ma gli inquirenti hanno trovato il messaggio di addio dove si accusava dei delitti. Hanno anche trovato a Clairvaux-les-Lacs i cadaveri  dei genitori di Jean-Claude e del loro cane, tutti uccisi con armi da fuoco. E Corinne, la sua amante, ha testimoniato che ha cercato di strangolarla.
Si appella quindi al raptus di follia, non sapendo che mentre era incosciente l'immenso castello di menzogne che era la sua vita era già crollato: Jean-Claude Romand non si era mai laureato in medicina, non era un ricercatore, non lavorava all'OMS di Ginevra.
Era solo un truffatore e ora anche un assassino.
E questa è una storia vera.

La classificazione che ne fa Amazon mi permette di inserirlo nella traccia bonus di giugno, che prevede la lettura di libri del proprio genere preferito, e il mio è la narrativa contemporanea, ma questo a tutti gli effetti è un reportage e non solo per il taglio giornalistico che lo caratterizza.

Pubblicato nel 2000, viene considerato l'opera gemella de "La settimana bianca" (che ho letto a gennaio) e che Carrère scrisse mentre stava già lavorando a questo romanzo-verità.
Un'altra opera breve (169 pagine) che mi ha coinvolta molto di più rispetto all'altra e non poteva essere altrimenti: le cinque vittime (più il cane) di Romand sono reali, reale è il suo crimine, reale è la sentenza.

E reali sono le sue ricostruzioni: è questo che Carrère racconta basandosi non tanto sull'istruttoria e sugli atti processuali, ma principalmente su quanto raccontato da Romand e da alcuni testimoni, fra cui quello a cui nel libro viene dato il nome fittizio di Luc Ladmiral, il suo migliore amico dai tempi dell'università.

Attraverso le varie dichiarazioni Carrère spiega come abbia fatto Romand a fingere un percorso di studi, prima, e una carriera, poi, riuscendo a imbrogliare anche moglie e genitori, come sia riuscito a mantenere una netta separazione fra la vita privata e quella "lavorativa" e dove abbia attinto alle risorse economiche che hanno permesso, a lui e alla famiglia, di sostenere per oltre quindici anni un tenore di vita decisamente alto.

Analizza le motivazioni che lo hanno portato ad arrivare a costruire la sua falsa doppia vita, basandosi però su sue personali interpretazioni perché - a quanto ho capito facendomi prendere anche dalle ricerche in rete - Romand non ha mai fornito una spiegazione concreta, mentre ha dichiarato di non essersi limitato al suicidio (fallito, e anche qui c'è chi dubita delle sue reali intenzioni) perché non sopportava l'idea di farli soffrire.

Parlare dell'omicidio come atto d'amore per me è inconcepibile, sono molto in disaccordo con certe affermazioni di Carrère che vedeva "in lui non un uomo che ha fatto qualcosa di agghiacciante, ma un uomo al quale è accaduto qualcosa di agghiacciante, vittima sventurata di forze demoniache". E ancora:

"I giornalisti di fronte a lui, la presidente e i giurati a destra, il pubblico a sinistra, lo scrutavano impietriti.
«Non capita tutti i giorni di vedere il volto del diavolo»: così suonava l’attacco dell’articolo comparso il giorno dopo sul «Monde». Io, nel mio, parlavo di un dannato."
Mi trovo, invece, sulla stessa linea di pensiero del pubblico ministero che iniziò la sua requisitoria dicendo:
"Vi parleranno di compassione. Quanto a me, la riservo alle vittime"
Ogni caso è un caso a sé, ma tutto quello che ho letto nel libro e altrove su quest'uomo mi porta a pensare a lui come a un opportunista e a un vigliacco, capace anche di speculare sulle malattie, inventandosi un cancro per sé ed estorcendo (altri) 60.000 franchi a un parente della moglie in fase terminale per quattro pastiglie ancora in fase di sperimentazione all'OMS, ma a suo dire miracolose. Ovviamente inesistenti, come il suo lavoro, come tutta la sua vita, ad eccezione della famiglia che ha sterminato. Trattandosi di un fatto di cronaca, non faccio spoiler aggiungendo che nel giugno 2019, all'età di 65 anni e dopo averne scontato 26 in carcere, Jean-Claude Romand è stato scarcerato e trasferito all'abbazia di Fontgombault con l'obbligo di indossare giorno e notte il braccialetto elettronico per 24 mesi. Vale a dire che a partire da adesso lui - che nel 1996 era stato condannato all'ergastolo - è stato liberato anche dal bracciale. Per i prossimi dieci anni sarà sottoposto alla restrizione della libertà, dopodiché sarà definitivamente libero. Voglio sperare che non abbia passato neppure un giorno senza macerarsi nel rimorso per quello che ha fatto, ma alle sue vittime è andata peggio. Lui non mi fa pena.

Reading Challenge 2022, traccia bonus di giugno: libri del proprio genere preferito (narrativa contemporanea)