Madrid,
16 giugno 2014. Nicolas ha quattro anni quando viene rapito
all’interno di un grande centro commerciale. Nessuno sembra essersi
accorto di nulla e anche le telecamere di videosorveglianza non
riescono a localizzarlo. In Spagna si scatena il panico, soprattutto
dopo che la stampa affibbia al rapitore il soprannome di Slenderman:
le famiglie cominciano a disertare parchi gioco, piscine, ovviamente
i centri commerciali, finché la notizia a poco a poco si sgonfia per
mancanza di nuove informazioni.
Due
anni dopo altri due bambini vengono rapiti
a pochi giorni di distanza nello
stesso centro commerciale. Anche Kike e Pablo hanno quattro anni ed
entrambi somigliano moltissimo a Nicolas.
Le indagini vengono
affidate all’ispettore capo Ana Arén, coinvolta in prima persona
perché Pablo è il figlio di Inés Grau, giornalista televisiva e
scrittrice, nonchè la sua migliore amica.
Opera
prima di Carme Chaparro, giornalista di Canal Once, come una delle
sue protagoniste. Ho letto in rete che il romanzo ha avuto un
clamoroso successo, non soltanto fra gli spagnoli, ma a me non ha
convinto del tutto.
Peccato,
perché la trama è ben strutturata, il thriller è ben costruito,
segue tutti i meccanismi corretti che portano ai giusti incastri. C’è
una buona dose di suspense che coinvolge e sprona ad andare avanti e
l’autrice è brava nel descrivere sentimenti devastanti come quelli
di una madre in pena per il proprio figlio, ma ci sono anche tanti
elementi non di mio gusto.
La
protagonista: Ana, l’ennesima figura di donna resa dura e
impermeabile da un triste episodio del suo passato, ma che
all’interno racchiude moltissime fragilità. Una tipologia di
personaggio che mi ha proprio stancata.
Troppa
tecnologia: argomento su cui sono profondamente ignorante, ma credo
che l’autrice abbia esagerato, in particolare riguardo all’utilizzo
del NeuroQWERTY, un reale progetto che mira alla diagnosi precoce
delle malattie neurodegenerative attraverso l’analisi dei mutamenti
nel modo in cui si digita sulla tastiera.
Lo
stile: frasi corte, spesso cortissime, secche, perentorie. Ma, al di
là del mio amore per i periodi lunghi, è proprio un livello di
scrittura mediocre, pesantemente infarcito da pseudo ostentazioni di
cultura messe lì, credo, con l’intento di rendere certe
descrizioni interessanti, ma risultando solo inutili ai fini della
narrazione e fuori contesto.
Faccio
un esempio. Ana è in treno: “Teneva
la testa appoggiata al finestrino, aveva gli occhi chiusi e sentiva
il calore del sole...”. Io
avrei aggiunto semplicemente “...sul viso”. Invece no:
“...sentiva il calore del
sole, riusciva persino a percepire i nuclei d’idrogeno che si
trasformavano maestosamente in atomi di elio e viaggiavano per
raggiungere la sua pelle a centoquarantanove milioni di chilometri
alla velocità della luce filtrando – otto minuti e diciannove
secondi dopo – attraverso il finestrino del treno in corsa”.
Credo di aver reso l'idea.
Troppe
ripetizioni: tante frasi identiche ripetute in paragrafi vicini (e
una frase come “Ho bisogno
di un filo da cui iniziare a tirare”
in un libro la puoi usare una volta, non tre!), ma anche situazioni,
azioni, pensieri, ecc, raccontati più volte, spesso usando gli
stessi termini, una cosa che penalizza moltissimo la qualità di un
testo.
Un
thriller che avrebbe meritato uno scrittore più bravo.
Reading
Challenge 2019: collegamento con la traccia musicale di settembre per
la parola "sono" nel titolo