domenica 29 settembre 2019

"Non sono un mostro", Carme Chaparro


Madrid, 16 giugno 2014. Nicolas ha quattro anni quando viene rapito all’interno di un grande centro commerciale. Nessuno sembra essersi accorto di nulla e anche le telecamere di videosorveglianza non riescono a localizzarlo. In Spagna si scatena il panico, soprattutto dopo che la stampa affibbia al rapitore il soprannome di Slenderman: le famiglie cominciano a disertare parchi gioco, piscine, ovviamente i centri commerciali, finché la notizia a poco a poco si sgonfia per mancanza di nuove informazioni.
Due anni dopo altri due bambini vengono rapiti a pochi giorni di distanza nello stesso centro commerciale. Anche Kike e Pablo hanno quattro anni ed entrambi somigliano moltissimo a Nicolas.
Le indagini vengono affidate all’ispettore capo Ana Arén, coinvolta in prima persona perché Pablo è il figlio di Inés Grau, giornalista televisiva e scrittrice, nonchè la sua migliore amica.

Opera prima di Carme Chaparro, giornalista di Canal Once, come una delle sue protagoniste. Ho letto in rete che il romanzo ha avuto un clamoroso successo, non soltanto fra gli spagnoli, ma a me non ha convinto del tutto.

Peccato, perché la trama è ben strutturata, il thriller è ben costruito, segue tutti i meccanismi corretti che portano ai giusti incastri. C’è una buona dose di suspense che coinvolge e sprona ad andare avanti e l’autrice è brava nel descrivere sentimenti devastanti come quelli di una madre in pena per il proprio figlio, ma ci sono anche tanti elementi non di mio gusto.

La protagonista: Ana, l’ennesima figura di donna resa dura e impermeabile da un triste episodio del suo passato, ma che all’interno racchiude moltissime fragilità. Una tipologia di personaggio che mi ha proprio stancata.

Troppa tecnologia: argomento su cui sono profondamente ignorante, ma credo che l’autrice abbia esagerato, in particolare riguardo all’utilizzo del NeuroQWERTY, un reale progetto che mira alla diagnosi precoce delle malattie neurodegenerative attraverso l’analisi dei mutamenti nel modo in cui si digita sulla tastiera.

Lo stile: frasi corte, spesso cortissime, secche, perentorie. Ma, al di là del mio amore per i periodi lunghi, è proprio un livello di scrittura mediocre, pesantemente infarcito da pseudo ostentazioni di cultura messe lì, credo, con l’intento di rendere certe descrizioni interessanti, ma risultando solo inutili ai fini della narrazione e fuori contesto.

Faccio un esempio. Ana è in treno: “Teneva la testa appoggiata al finestrino, aveva gli occhi chiusi e sentiva il calore del sole...”. Io avrei aggiunto semplicemente “...sul viso”. Invece no: “...sentiva il calore del sole, riusciva persino a percepire i nuclei d’idrogeno che si trasformavano maestosamente in atomi di elio e viaggiavano per raggiungere la sua pelle a centoquarantanove milioni di chilometri alla velocità della luce filtrando – otto minuti e diciannove secondi dopo – attraverso il finestrino del treno in corsa”. Credo di aver reso l'idea.

Troppe ripetizioni: tante frasi identiche ripetute in paragrafi vicini (e una frase come “Ho bisogno di un filo da cui iniziare a tirare” in un libro la puoi usare una volta, non tre!), ma anche situazioni, azioni, pensieri, ecc, raccontati più volte, spesso usando gli stessi termini, una cosa che penalizza moltissimo la qualità di un testo.

Un thriller che avrebbe meritato uno scrittore più bravo.

Reading Challenge 2019: collegamento con la traccia musicale di settembre per la parola "sono" nel titolo