sabato 23 novembre 2019

"La versione Fenoglio", Gianrico Carofiglio


Bari, 2010. Pietro Fenoglio ha già 59 anni, gliene manca soltanto uno prima della pensione, ma non ha potuto rinviare oltre l’intervento per la ricostruzione dell’anca. Ed è durante le sedute di fisioterapia che conosce Giulio, un ragazzo vittima di un incidente stradale.
Fra i due, grazie alla passione comune per la lettura, si instaura un bel dialogo, potrebbero essere padre e figlio, ma proprio per questo riescono a darsi reciprocamente il diverso tipo di sicurezza di cui entrambi hanno bisogno.

La versione Fenoglio” è un manuale sull’arte dell’indagine nascosto in un romanzo: così spiega la sinossi e riporto la frase perché è sufficiente a spiegare l’intero libro.

Carofiglio sfrutta questa nuova conoscenza per far raccontare al suo personaggio tutto quello che ha appreso e vissuto durante i lunghi anni di carriera, a partire dal come e dal perché a 22 anni ha partecipato al concorso per diventare vicebrigadiere dell’Arma, lui che sognava di poter vivere facendo tutt’altro, cioè scrivendo.

Un romanzo-manuale che, spiegando le regole di comportamento basilari per le forze dell’ordine, diventa anche un romanzo-denuncia attraverso il racconto di casi in cui c’è stato abuso di potere: da chi sfrutta il ruolo che ricopre per farsi offrire le consumazioni in bar e ristoranti a chi non segue la corretta procedura nelle scene del crimine contaminando le prove fino a quelli che incarnano il lato violento della legge.

"Il problema più serio è quando la violenza viene esercitata per chiarire i rapporti di forza: il delinquente deve capire chi comanda e secondo alcuni può capirlo solo così. Oppure per dare al soggetto un anticipo di punizione. Con l’eventuale aggravante che a taluni piace picchiare

Sicuramente alcuni, forse molti, non riconosceranno in questo atteggiamento un problema pensando che chi delinque merita di subire violenza, ma è l’ultima frase a dover far riflettere. E’ ovvio, come spiega Carofiglio, che in certe circostanze di pericolo polizia, carabinieri, ecc, debbano imporsi con la violenza, per difendere se stessi e/o altre persone, o anche semplicemente per riuscire a effettuare l’arresto.

Ma sono i casi come quello di Stefano Cucchi a dover far prendere le distanze da certe barbarie (non mi stupirei se l’idea della struttura del romanzo sia stata ispirata proprio dalle circostanze della morte di Stefano), soprattutto per il rispetto dovuto a chi esercita queste professioni con serietà, coraggio e osservazione delle regole.

Quello che trovo agghiacciante, non solo nel caso di Stefano Cucchi, è come anche chi per mestiere e preparazione dovrebbe saper gestire meglio di altri i propri istinti, possa cadere “vittima” dell’effetto branco.

Una singola persona che arriva (letteralmente) ad ammazzarne di botte un’altra personalmente mi raggela: non parliamo di uno schiaffo, di un paio di pugni, di un calcio nelle parti basse.

Parliamo di sfondare torace e cranio a forza di botte.

Ma che a mettere in pratica un pestaggio di questo tipo sia un gruppo di persone è… inconcepibile. Non abbiamo più un singolo individuo che, per ragioni più o meno comprensibili, ha perso la testa, ma più individui che traggono forza dall’effetto branco, appunto. Possibile che davanti al massacro di Stefano Cucchi nessuno dei presenti sia riuscito a dire: “basta!”? Caso limite? Non direi, da genovese non potrò mai dimenticare la “macelleria messicana” perpetrata nella scuola Diaz ai tempi del G8.

Non può esserci giustificazione, solo rabbia e vergogna. E rispetto per chiunque vesta una divisa con il riguardo che merita.

Reading Challenge 2019: collegamento a cascata con la traccia di novembre. Lo collego a "L'estate fredda" perchè entrambi ambientati a Bari