Bari, 2010.
Pietro Fenoglio ha già 59 anni, gliene manca soltanto uno prima della pensione, ma non ha potuto rinviare oltre l’intervento
per la ricostruzione dell’anca. Ed è durante le sedute di
fisioterapia che conosce Giulio, un ragazzo
vittima di un incidente stradale.
Fra
i due, grazie alla passione comune per la lettura, si instaura un bel dialogo, potrebbero essere padre e figlio, ma proprio per questo
riescono a darsi reciprocamente il diverso tipo di sicurezza di cui
entrambi hanno bisogno.
“La
versione Fenoglio” è un manuale sull’arte dell’indagine
nascosto in un romanzo: così spiega la sinossi e riporto la frase
perché è sufficiente a spiegare l’intero libro.
Carofiglio
sfrutta questa nuova conoscenza per far raccontare al suo personaggio
tutto quello che ha appreso e vissuto durante i lunghi anni di
carriera, a partire dal come e dal perché a 22 anni ha partecipato al concorso per diventare vicebrigadiere dell’Arma, lui
che sognava di poter vivere facendo tutt’altro, cioè scrivendo.
Un
romanzo-manuale che, spiegando le regole di comportamento basilari
per le forze dell’ordine, diventa anche un romanzo-denuncia attraverso
il racconto di casi in cui c’è stato abuso di potere: da chi sfrutta
il ruolo che ricopre per farsi offrire le consumazioni in bar e
ristoranti a chi non segue la
corretta procedura nelle scene del crimine contaminando le prove fino
a quelli che incarnano il lato violento della legge.
"Il
problema più serio è quando la violenza viene esercitata per
chiarire i rapporti di forza: il delinquente deve capire chi comanda
e secondo alcuni può capirlo solo così. Oppure per dare al soggetto
un anticipo di punizione. Con l’eventuale aggravante che a taluni
piace picchiare”
Sicuramente
alcuni, forse molti, non riconosceranno in questo atteggiamento un
problema pensando
che chi delinque merita di subire violenza, ma
è l’ultima frase a dover far
riflettere. E’ ovvio, come
spiega Carofiglio, che in certe circostanze di pericolo polizia,
carabinieri, ecc, debbano imporsi con la violenza, per difendere se
stessi e/o altre persone, o anche semplicemente per riuscire a
effettuare l’arresto.
Ma sono i casi come quello di Stefano Cucchi
a dover far prendere le distanze da certe barbarie (non mi stupirei
se l’idea della struttura del romanzo sia stata ispirata
proprio dalle circostanze della morte di Stefano), soprattutto
per il rispetto dovuto a chi esercita queste professioni con serietà,
coraggio e osservazione delle regole.
Quello
che trovo agghiacciante, non solo nel caso di Stefano Cucchi, è come
anche chi per mestiere e preparazione dovrebbe saper gestire meglio
di altri i propri istinti, possa cadere “vittima” dell’effetto branco.
Una
singola persona che arriva (letteralmente) ad ammazzarne di botte
un’altra personalmente mi raggela: non parliamo di uno schiaffo, di
un paio di pugni, di un calcio nelle parti basse.
Parliamo di
sfondare torace e cranio a forza di botte.
Ma
che a mettere in pratica un pestaggio di questo tipo sia un gruppo di
persone è… inconcepibile. Non abbiamo più un singolo individuo che, per ragioni più o meno
comprensibili, ha perso la testa, ma più individui che traggono
forza dall’effetto branco, appunto. Possibile che davanti al
massacro di Stefano Cucchi nessuno dei presenti sia riuscito a dire:
“basta!”? Caso limite? Non direi, da genovese non potrò mai
dimenticare la “macelleria messicana” perpetrata
nella scuola Diaz ai tempi del
G8.
Non può esserci giustificazione, solo rabbia e vergogna. E rispetto per
chiunque vesta una divisa con il riguardo che merita.
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Challenge 2019: collegamento a cascata con la traccia di novembre. Lo
collego a "L'estate fredda" perchè entrambi ambientati a
Bari