Tokyo,
anni ‘90. E’ primavera quando le vite di Sumire e di Myu si
incrociano. Invitate a un matrimonio, si ritrovano sedute allo
stesso tavolo. Sumire ha 22 anni, studia all’università, veste in
modo bizzarro, sogna di diventare una scrittrice e nel frattempo si
perde nei libri scritti da altri. Parla lo spagnolo e questo
incuriosisce Myu al punto da assumerla come segretaria perché lei
importa vini dall’Europa e, se Sumire sa già lo spagnolo, non avrà
difficoltà ad imparare anche l’italiano. E Sumire finisce con
l’innamorarsi per la prima volta nella vita: non dell’amico
coetaneo innamorato di lei (che è la voce narrante), ma proprio di
Myu, che potrebbe quasi essere sua madre, che ha un marito e che da
quattordici anni non riesce più ad amare nessuno.
Ecco
qui il Murakami onirico di cui mi avevano parlato e che tanto temevo…
Fino a poco più della metà il romanzo è bello e razionale, anche con una gradevole sfumatura gialla in sottofondo. Poi arriva il
sogno e il mio conseguente smarrimento. Non è diventato un brutto
libro, non può essere brutto un libro scritto così bene! Ma un
libro piace se soddisfa determinati requisiti a livello personale e
trovo difficile entusiasmarmi per una storia che mi lascia troppi
punti interrogativi, che mischia il reale all’irreale, che alla
fine non chiarisce cosa è successo davvero e cosa è stato solo
immaginato, chi si è salvato e chi no.
Quindi
il libro (o meglio, la seconda parte) non mi è piaciuto, ma mi è
piaciuto leggerlo: perché ho ritrovato tutti gli aspetti che mi
avevano già conquistata di Murakami, la sua grande introspezione, la
pacatezza dei suoi personaggi e in generale la serenità che riesce a
trasmettermi anche grazie a quella solitudine triste che per ora ho
ritrovato in tutti gli autori giapponesi (pochi) che ho letto.
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Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di maggio "scegli una casa editrice e leggi libri solo di quell'editore". Ho scelto Einaudi