venerdì 10 luglio 2020

"Luci d'inverno", Nora Roberts


Lunacy (Alaska), dicembre 2004. E’ un uomo molto provato quello che arriva in città all’inizio dell’inverno dopo aver accettato il ruolo di capo della polizia. Per Ignatious “Nate” Burke, 32 anni, le cose a Baltimora sono andate molto male: il suo migliore amico e collega è stato ucciso in un conflitto a fuoco di cui si sente in parte responsabile, proprio quando stava già lottando per riprendersi dal tradimento della moglie e dal conseguente divorzio.
Non tutti i 506 abitanti di Lunacy sono d’accordo con la decisione del consiglio comunale di assumere un estraneo - un cheechako - e la tiepida accoglienza non viene certo mitigata dal clima rigido! Per fortuna c’è la bella Meg a scaldargli il letto e forse anche il cuore.
La calma piatta del lavoro viene interrotta con il ritrovamento del cadavere del padre di Meg all’interno di una grotta di ghiaccio: Pat Galloway era scomparso nel febbraio 1988 e tutti erano convinti che avesse abbandonato volontariamente figlia, compagna e amici, invece è stato ucciso durante un’escursione sulla montagna. Ma da chi?

Nora Roberts è una di quegli autori capaci di sfornare anche dieci libri all’anno, spesso tomi come questo, non librini. Un dettaglio che non mi ha mai spinta verso i suoi titoli perché la quantità quasi sempre penalizza la qualità. Partendo da questo presupposto e non avendo attrattiva per il genere rosa crime, avevo aspettative molto basse, cosa che ha sicuramente contribuito a rendere la lettura più piacevole di quanto pensassi.

La storia gialla non regala suspense, non eccelle né per dinamismo né per complessità, ma nella sua semplicità è comunque sensata e ben costruita. La Roberts spinge i sospetti in una direzione, poi in un’altra, quindi in un’altra ancora e quando svela il colpevole lo fa senza riuscire a creare un colpo di scena, non perché fosse già chiara la sua identità (poteva essere chiunque), ma perché poco interessante ai fini della storia. Un bel paradosso, ma qui il giallo è talmente tanto stemperato dal rosa che finisce per essere un dettaglio poco disturbante.

Le vicende sentimentali sono melense, scontate e raccontate in modo piuttosto antiquato, con largo uso di espressioni come “una Barbie sciupauomini”, “uno schianto di donna” e “la fece sua”, nulla di diverso da quanto mi aspettassi.

Per contro la Roberts dà un’immagine convincente, seppur stereotipata, ai tanti personaggi e soprattutto è molto brava nella parte descrittiva. Ho preferito la sua presentazione dell’Alaska rispetto a quella di “Nelle terre estreme”, anche se continuo a non provare nessuna attrattiva per un posto dove i dieci gradi sotto lo zero vengono descritti come “mite temperatura”!!

E fra stufati di orso, hamburger di alce e insalate di bisonte, quando un cane viene ritrovato sgozzato arriva l’immancabile ipocrisia della frase pseudo animalista: “Gesù, chi è quel malato figlio di puttana capace di fare una cosa simile a una povera bestia?”
 

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di luglio "un libro in cui un personaggio muore"